venerdì 10 giugno 2011

Alfredino Rampi, trent'anni fa' il dolore in diretta di tutta l'Italia...


10 - 06 - 1981 / 10 - 06 - 2011

A Vermicino, vicino a Frascati, un bambino di sei anni cade in un pozzo e vi resta prigioniero. Si scava con le trivelle e a mani nude per salvarlo. Le telecamere riprendono tutto. E l’Italia per tre giorni è incollata alla tv


Mercoledì 10 giugno 1981
Alfredino Rampi è caduto nel pozzo?
Ore 19. Ferdinando Rampi, 41 anni, romano, impiegato dell’azienda comunale elettricità e acque, passeggia con un paio di amici lungo un viottolo sterrato in mezzo alle vigne. Abita a piazza Bologna, nel centro di Roma, ma d’estate sta spesso con la sua famiglia in una villetta di campagna, tirata su mattone dopo mattone in via di Vermicino, Borgata Finocchio, a qualche chilometro da Frascati. Davanti a lui in canottiera e calzoni corti saltella il figlio maggiore Alfredo, di anni 6, una malformazione al cuore in attesa di intervento a settembre. In casa a preparare la cena ci sono la mamma Francesca Bizzarri, 39 anni, e la nonna Veja. Il fratellino Riccardo, un anno, dorme.
Ore 19.20. Alfredino vuol tornare indietro, saluta il papà che si attarda con gli amici.
Ore 20.00. Ferdinando Rampi rientra in casa, ma Alfredino non c’è. Torna ai campi: «Alfredo! Alfredo! Forza, a casa. È ora di cena». Nessuna risposta.
Ore 20.30. I genitori guardano ovunque ma non riescono a immaginare dove possa essere andato. La nonna Veja: «Oddio non sarà caduto nel pozzo?». Controllano poco distante, dove sta sorgendo una villetta nuova: in un angolo del cortile c’è un budello trivellato alla ricerca di acqua. È coperto da una lamiera tenuta ferma da due pesanti sassi. Alfredino non c’è.
Ore 21.30. Chiamano la polizia: le volanti sono lì in una decina di minuti. Arrivano anche vigili del fuoco e vigili urbani. Gli abitanti, incuriositi da tanto via vai, si offrono di dare una mano nella ricerca. Per due ore e mezzo perlustrano metro per metro tutta la campagna, da via di Vermicino fino alla borgata Selvotta. Cani annusano e abbaiano, Alfredino non si trova.
Ore 24. Il brigadiere Giorgio Serranti sente qualcuno parlare di un pozzo artesiano. Gli spiegano che si tratta di un buco nel terreno largo una trentina di centimetri scavato da pochi giorni per cercare acqua: scende fino a 80 metri di profondità. Dicono d’aver già controllato: il foro è coperto. Serranti: «E che significa? Qualcuno potrebbe averlo chiuso dopo, senza sapere se dentro c’è il bambino». Si fa condurre al pozzo, si china, tende l’orecchio. Passa un aeroplano, il rombo copre tutto. Insiste, zittisce tutti, infila la testa nel buco. Sente una voce: «Mamma!».
Giovedì 11 giugno 1981
Un tunnel per salvare Alfredino
Ore 1. Calano una lampada fluorescente legata a una corda per capire dove sta il bambino, ma dentro si vede solo buio: «Alfredo tu ci vedi?». «No». Piange ma per fortuna è a testa in su. Si capisce che si è incastrato. Si dovrebbe trovare a 36 metri di profondità, dove il budello si stringe: sotto i suoi piedi altri 44 metri di vuoto. La Rai porta un’elettrosonda con microfono ultrasensibile per sentire le sue parole. Il padre, inginocchiato davanti alla buca: «Stai tranquillo, stiamo venendo a prenderti». La mamma: «Io sono qua, non mi muovo. Ma tu fai il bravo». Fanno scendere una tavoletta di legno: «Così ci si siede e poi lo tiriamo fuori». Il pezzo di legno s’incastra a 24 metri e per tirarlo su spezzano la corda: adesso tra l’aria aperta e Alfredo c’è un tappo. Impossibile mandargli cose da mangiare e bere più grandi di una fiala. Gli operatori Rai piazzano una telecamera, i pompieri le lampade.
Ore 5. Si cerca un nano che possa entrare nel foro e scendere fino ad Alfredo. Si trova invece Tullio Bernabei, di anni 22, speleologo del soccorso alpino, che si fa calare a testa in giù. L’hanno scelto perché è magro, ma a 20 metri strattona la fune: vuole risalire. Ci prova un altro: risale anche lui quasi subito. Il pozzo è troppo stretto. I pompieri poggiano sull’orlo del foro bombole da sommozzatore che, tramite un tubo, soffiano ossigeno nel tunnel.
Ore 6. Il comandante dei vigili del fuoco, Elveno Pastorelli, dopo aver telefonato a mezza Roma è riuscito a trovare una trivella. La presta la ditta Tecnopali. Arriva scortata dalla polizia. Il piano: scavare un tunnel parallelo a quello dov’è Alfredino, scendere fino a 38 metri, fare una galleria tra i due pozzi e recuperare il bambino. Grida: «Mamma, tirami fuori mi fa male un braccio e una gamba. Sono stanco». Pastorelli, al megafono: «Sono il comandante dei vigili del fuoco». Alfredo: «Ti conosco, ti ho visto in televisione per il terremoto. Quanti uomini hai?». Pastorelli: «Cento uomini. Ti prometto che ti tiro fuori».
Ore 8.30. La trivella comincia a scavare: tufo morbido, scende di 2 metri in 2 ore. Ottimismo. Finché tocca uno strato di tufo granitico, chiamato “cappellaccio”. Molto duro, si scalfisce a malapena. Qualcuno nota: «Sarebbe meglio aver trovato la roccia, almeno si sarebbe spezzata». La trivella continua, il bambino è spaventato dal rumore, ogni tanto crolla sfinito nel sonno, poi si sveglia. Chiede da bere.
Ore 10.30. Per non disturbare le comunicazioni di Alfredino, la Rai e le radio private del Lazio sospendono le trasmissioni sulle onde medie.
Ore 12.30. Arriva una nuova geosonda, enorme e potente. Per montare il braccio meccanico ci vorrebbero 12 ore, ma gli operai sotto il sole ci danno talmente dentro che per fare tutto il lavoro ne bastano 3. Alfredo: «Voglio papà perché mi scappa la pipì e ho paura che mi sgridi. Ho sete». Le reti Rai cominciano a trasmettere un’unica diretta. Tutt’intorno ormai è arrivata talmente tanta gente che qualcuno mette in piedi bancarelle per vendere cibo e bevande.
Ore 15.43. Misurano il tunnel scavato: 20 metri e 50 centimetri. Disappunto, perché si pensava di aver raggiunto almeno i 25. Entra in funzione la geosonda.
Ore 18.22. Nuova misurazione: 21 metri e 4 centimetri. La sonda ha scavato poco: mezzo metro in 2 ore. Elvezio Fava, primario di rianimazione all’ospedale San Giovanni, controlla le condizioni di salute del bambino: «Per il momento non si riscontrano disturbi di alcun genere».
Ore 20. Si tenta con una nuova trivella, più agile delle precedenti. I medici mandano una fiala di acqua e zucchero ad Alfredino, che si lamenta: «Voglio acqua, non whisky». Riprendono le trasmissioni radio nel Lazio.
Ore 22. La trivella continua a scavare ma guadagna centimetri con molta fatica. «Con duecento uomini, le pale meccaniche, i congegni più sofisticati sopra la testa, Alfredo è ancora lì: troppo lontano». [Cesare De Simone e Gian Antonio Stella, Corriere della Sera 12/6/1981]
Ore 23. Un manovale che abita in zona si fa calare nel pozzo artesiano a testa in giù. Scende parecchio, ma deve desistere. Alto poco più di un metro e mezzo, 52 anni e un fisico da bambino, il suo nome è Isidoro Mirabella, ma ormai i giornalisti lo chiamano «uomo ragno». La geosonda continua a picchiare.
Venerdì 12 giugno 1981
Pertini conforta Alfredino
Ore 9.17. Finalmente la trivella rompe lo strato duro di tufo granitico. Gli operai mettono una punta a elica; s’inabissa e scava con facilità, riportando in superficie masse di terriccio bruno: è argilla. Il pompiere Nando Broglio, che non lascia mai l’argine del foro e parla con Alfredo urlando in un megafono, gli comunica la bella notizia: «Mazinga uomo d’acciaio ce l’ha fatta! Le lame rotanti hanno distrutto la roccia che ci impediva di venire giù a prenderti! Ancora un po’ di pazienza che arriviamo». Alfredo: «Fate presto, sono stanco».
Ore 10.10. Buttano una sonda per misurare la profondità dello scavo: 30 metri e 5 centimetri. L’ingegner Faggioli dei vigili del fuoco rifà i conti per calcolare dove sta Alfredo: «Non è a 36 metri, ma a 32 e 50». È una fortuna perché a 32 metri riaffiora il tufo granitico. Breve consulto: perdere chissà quante ore per cercare di sfondarlo, oppure scavare da subito la galleria verso il pozzo artesiano e recuperare dall’alto Alfredo?
Ore 11. Una nuova scavatrice arancione. Spiegano i tecnici: «L’altra perforava grazie alla forza di gravità e alla rotazione, mentre questa è a pressione. Una bomba!». Contro il tufo si blocca appena l’accendono. Tre vigili del fuoco si preparano a scendere per scavare la galleria di collegamento. Alfredo non risponde più alle parole del pompiere. I medici del San Giovanni, che ascoltano il respiro del bambino tramite delle sonde, dicono che sta peggiorando: 48 respiri al minuto.
Ore 11.40. In un gabbiotto rotondo viene calato da una gru il pompiere Maurizio Bonardo, tramite un serpentone di gomma grigia soffiano ossigeno nel foro. Comincia a creare un cunicolo col martello pneumatico. Alfredo ha una terribile sete.
Ore 13.35. Risale Bonardo: ha fatto un ingresso largo 80 centimetri per il cunicolo e ha scavato per un metro. Il terreno è duro, ma non troppo. Scendono i pompieri Manlio Buffardi e Mario Gonini. Nando Broglio chiede ad Alfredo di gridare forte il nome di Mario, per dare l’orientamento ai due vigili che scavano.
Ore 15.50. Buffardi, sdraiato nel cunicolo, il martello pneumatico che lo scuote e la faccia nera di terra: «Credo di esserci vicino. Sento il vuoto». Lui e Gonini risalgono, si calano Luciano Termini e Beppe De Santis.
Ore 16.30. Il sole è fortissimo. Arriva il presidente della Repubblica Pertini, non se lo aspettava nessuno, la gente intorno gli fa l’applauso. Consola la mamma e il papà, va all’imboccatura del pozzo, prende il microfono e scambia qualche parola con Alfredino. Decide di non muoversi finché il bambino non sarà stato salvato. Piange.
Ore 17.48. Forano la parete del pozzo artesiano che tiene Alfredo prigioniero. De Santis allarga il buco scavando con le mani per non far cadere la terra sul bambino. Infila la testa: «Dove sei, Alfredino? Mi senti?». «Sì, sei sopra di me», per vederlo calano una lampada: niente. Risalgono e scende uno speleologo. Silenzio. Lo speleologo torna su: Alfredo è scivolato nel pozzo per altri 29 metri. Adesso è a 60 metri di profondità.
Ore 22.20. A testa in giù per cercare di afferrarlo si cala lo speleologo Claudio Aprile, abruzzese. Niente da fare. A mezzanotte si prepara a scendere un altro volontario, di nome Angelo Licheri, 37 anni.
Sabato 13 giugno 1981
Alfredino Rampi è morto
Ore 0.15. Angelo Licheri appeso a testa in giù arriva fino ad Alfredo, a 63 metri e 20 centimetri. Gli toglie la terra dalla faccia, lo prende per le mani viscide di fango che scivolano. Prova a imbracarlo, ma Alfredo è incastrato da tutte le parti, ha le gambe ripiegate sotto il corpo; lo tira tenendolo sotto le ascelle ma il bimbo scivola, lo lega con una cinghia, ma la corda per tirarlo su si spezza. Tenta di nuovo con la cinghia, annoda alla meglio la corda, si spezza ancora. Lo tira per la canottiera, non si muove. Chiede di risalire, lo devono portare all’ospedale perché ha escoriazioni fino all’osso. Si fanno avanti altri volontari magrissimi: un contorsionista francese, il sardo Angelo Cossu, uno di nome Salvatore Li Causi, perfino due ragazzini di 15 e 16 anni (rimandati a casa dal magistrato).
Ore 6. Si prepara a scendere l’avezzanese Donato Caruso, di anni 25, cineoperatore e speleologo volontario. Si porta delle manette per agganciare Alfredo.
Ore 6.30. Donato Caruso tocca il bambino: ha il braccio sinistro in alto, l’altro nascosto dietro la spalla, è freddo, non parla, la testa è reclinata. Lo lega ai polsi, scivola. Deve risalire per farsi sistemare le legature alle caviglie, scende ancora, gli prende tutte e due le braccia, lo ammanetta sopra al gomito, il bambino si affloscia, scivola ancora, va più giù.
Ore 6.40. Caruso: «Non respira, adesso è incastrato con la testa reclinata». Si capisce che Alfredino è morto. I soccorritori si allontanano, si spengono i gruppi elettrogeni e le telecamere, resta abbandonata la geosonda. A terra cavi, funi, pali, tavole, lampade, trivelle. Qualcuno tira sassi ai fotografi. Pertini se ne va, se ne va l’ambulanza.
Serata. Arrivano circa quindicimila curiosi per vedere il luogo, servono i rinforzi per allontanarli. I vigili del fuoco mandano nel pozzo una sonda con telecamera: appare il viso di Alfredino coperto di fango. Ha gli occhi chiusi.
Lunedì 15 giugno 1981
La morte di Alfredino: arrestato Pisegna• È arrestato il proprietario del terreno, Amedeo Pisegna, abruzzese, 44 anni, insegnante di applicazioni tecniche. L’accusa è di omicidio colposo con l’aggravante della violazione delle norme di prevenzione degli infortuni. Tra l’altro dice di aver chiuso lui il pozzo mentre già erano iniziate le ricerche.
Mercoledì 17 giugno 1981
Critiche alla mamma di Alfredino•
Per conservare il corpo di Alfredo nel pozzo si fa una colata di azoto liquido (-30°C). Qualcuno critica il comportamento della mamma nei giorni del dramma: non ha mostrato di essere disperata abbastanza.
Sabato 11 luglio 1981
Recuperato il corpo di Alfredino Rampi•
Tre squadre composte da 6 minatori maremmani ciascuna recuperano Alfredo. È in un blocco di fango e ghiaccio lungo un metro e mezzo del diametro di 50 centimetri. Ha pezzi di legno accanto alla testa e alle braccia.
Mercoledì 15 luglio 1981
I funerali di Alfredino Rampi
Alle ore 11 i funerali nella basilica di San Lorenzo fuori le Mura. Bara di acero bianco. Piazzale del Verano è già piena di gente alle ore 9. La sera precedente la folla inferocita aveva preso d’assalto l’istituto di medicina legale: «Fatecelo vedere, altrimenti vuol dire che dentro quella bara non c’è lui, ma un bambolotto». Un cuscino di fiori da Pertini, in candidi mughetti con la scritta «Sandro al piccolo Alfredino».

(fonte Corriere.it)

1 commento:

Unknown ha detto...

Credo che per chiunque abbia più di 35 anni (io ne ho 38) sia indelebile il ricordo di quei giorni. Ogni tanto ci si ritrova a parlarne sottovoce perché rievocare quello sfortunato evento fa male, troppo male: inaccettabile prendere atto che un bambino perda la vita, stretto nella contrapposizione assurda tra sovrumani sforzi e palese inesperienza di chi lo avrebbe potuto e dovuto proteggere (i “grandi”). Sottolineo inesperienza, ma non conoscenze, quelle c’erano! Ma in quel momento non erano disponibili sul posto… Da quel giorno lo Stato, l’Italia intera ha mostrato al mondo la propria essenza umana, la propria impotenza, le conseguenze devastanti di un fatalismo diffuso. Se non è colpa di nessuno, tutti sono colpevoli. E ne abbiamo preso atto, è nata la Protezione Civile. Ma non riesco a togliermi dalla testa se ci voleva la morte insensata di un bambino perché si muovesse qualcosa. Una domanda questa che non troverà mai risposta. Voglio quindi lasciare un pensiero in questa pagina rivolgendomi proprio a quella piccola creatura: “Caro Alfredino, se il destino non ti avesse così crudelmente chiamato a sé, oggi avresti circa la mia età. Chissà cosa avresti combinato nella tua vita… del bene..? del male…? Non lo sapremo mai, non hai avuto la possibilità di mostrarcelo. E’ proprio per questo mi sento in dovere (ed invito tutti) ad avere rispetto della mia vita, proprio in segno di rispetto della tua così breve esistenza. Porterò avanti il tuo ricordo in tutti i momenti (tristi e felici) che tu non hai avuto l’opportunità di vivere. Sono sicuro che siamo in tanti a farlo, sommessamente, senza clamore, senza dirlo, ma lo facciamo, per te lo facciamo! Un caloroso ed infinito abbraccio”. PS: ricordo a tutti coloro che leggono questa pagina che c’è un modo MOLTO CONCRETO per ricordare il piccolo Alfredino: SOSTENERE IL CENTRO ALFREDO RAMPI, un’associazione fondata dalla sua mamma Franca subito dopo quei tristi giorni e che si occupa di prevenzione ambientale per i bambini. protezione civile e soccorso, nell’intento che tragedie simili non si ripetano mai più. Il Centro ha già fatto molto ma ha bisogno di un maggior sostegno per diffondere le proprie iniziative in tutto il territorio. Il sito è: http://www.centrorampi.it. Un caloroso abbraccio a tutti e, di nuovo, un pensiero per Alfredo Rampi, classe 1975, l’unico vero sacrificio umano che la storia contemporanea ha vissuto prima che la nostra società cominciasse a redimersi (a soli 6 anni, ma si può?!).